Le presunzioni per dividendi occultati – il riferimento a società “a ristretta base partecipativa” oppure “a base familiare”
Nel confermare la presunzione di occulta distribuzione degli utili, la giurisprudenza tributaria ha spesso dato peso alle strutture societarie connotate da pochi soci oppure caratterizzate dalla presenza di soci legati da rapporti di coniugio, parentela o affinità. E’ in effetti frequente, nel linguaggio dei giudici ed anche dell’Amministrazione finanziaria, il riferimento a società “a ristretta base partecipativa” oppure “a base familiare“, nella prospettiva di qualificare il peculiare rapporto esistente tra gli azionisti o tra i quotisti.
La giurisprudenza ritiene che, quando ci si trovi di fronte a simili situazioni, i rapporti tra i soci possano creare “complicità” (sopratutto quando si tratti di soci familiari) oppure “reciproco controllo” (quando la società sia a ristretta base partecipativa), cosicché potrebbe reputarsi più che fondata l’idea della spartizione, in modo occulto, dei frutti dell’evasione ascrivibile alla società.
Come identificare una società “a ristretta base partecipativa” e come una “a base familiare” per sorreggere una presunzione di distribuzione occulta degli utili? Le fattispecie suddette non sono, però, regolate da una specifica disposizione di legge, non ci sono disposizioni incentrate sul numero dei soci o sui rapporti parentali per stabilire se esista o meno una società a base ristretta o a base familiare. Si tratta piuttosto di mere situazioni fattuali che il fisco valorizza per contestare l’evasione e la cui utilizzabilità a fini dell’accertamento tributario dipende dalla sostenibilità di una precisa idea – secondo la quale sia credibile quanto la società non abbia dichiarato sotto forma di utile sia stato incassato dai soci e tra questi distribuito in ragione delle quote di partecipazione ai risultati della società ed entrato nella materiale disponibilità di ciascun azionista o di ciascun quotista.
L’equazione secondo quale l’“evasione della società = occulta distribuzione di dividendi ai soci” impone di stabilire quale sia, in concreto, l’apporto che i citati soci sono nella condizione di offrire alla gestione della società. La questione deve, quindi, essere affrontata caso per caso, senza fare d’ogni erba un fascio. Il che significa che il fisco dovrà verificare come e perché quei soci dovrebbero essersi spartiti i frutti dell’evasione societaria e in quale quantità. Si tratta di questione che deve essere debitamente motivata nell’avviso di accertamento altrimenti risulterà senza alcun fondamento. Non è sufficiente, quindi, che l’avviso di accertamento mediante quale viene rettificata la dichiarazione del socio si fondi semplicemente ed esclusivamente sulla qualità della struttura, cioè che sono “pochi soci“, “tre soci“, “sei soci” e neanche sul rapporto di parentela, di affinità, di coniugio o di mera unione intercorrente fra i possessori di quote o azioni. Non può dirsi, quindi, solo sulla base dei succitati elementi, che fra i detti soggetti vi è stato, nel periodo d’imposta di riferimento, complicità nella gestione dell’evasione societaria e nella distribuzione dei frutti che tale evasione abbia generato. Non è altrettanto dimostrato – sempre sulla base dei suddetti elementi – il passaggio di denaro tra la società e i citati soci.
Poiché, l’esistenza di pochi soci o di soci familiari è sempre compatibile con le seguenti situazioni:
- soltanto alcuni soci abbiano gestito le operazioni “al nero” e successivamente spartito senza coinvolgere gli altri;
- l’evasione della società sia da ascrivere a soggetti diversi da soci (amministratore, direttore generale infedele), con conseguente spartizione del ricavato tra i soggetti non facenti parte della compagine societaria;
- l’evasione imputabile alla società sia rimasta proprio nella società, impegnata nel circuito produttivo – per esempio per l’acquisto di nuovi fattori produttivi sempre “al nero” e senza il coinvolgimento degli azionisti o quotisti.
Anche le carature delle partecipazioni possono giustificare la presunzione di occulta distribuzione dei dividendi. I soci di minoranza, sopratutto nei casi in cui non vi sono rapporti di parentela, affinità, coniugio o mera unione con i soci di maggioranza, possono essere in concreto lontani dalla gestione della società, perché sforniti di poteri decisionali. Non possono, quindi, scegliere gli amministratori, non possono pretendere l’osservanza, da parte di quest’ultimo, delle direttive impartite, non decidono quando distribuire i dividendi e non interferiscono, in generale, con le fasi gestionali della società. E’ credibile, in altre parole, che non possono avere alcuna voce in capitolo per quanto attiene alla gestione extra-contabile di operazioni societarie, delle quali in molti casi non sono nemmeno al corrente. L’idea della automatica occulta distribuzione di utili, anche in questa situazione ed anche per questi motivi risulta del tutto infondata ed illegittima.
Nella pratica professionale, le presunzioni di occulta distribuzione dei dividendi, non sono quasi mai accompagnate da controlli funzionali a stabilire se vi siano stati, in concreto, pagamenti a favore del socio. Mancano completamente le verifiche di tipo bancario-finanziario. A ciò si aggiunge che spesso le presunzioni di cui sopra sono applicate anche ai soci di secondo grado – spesso al fine di effettuare verifiche per saltum in capo al socio persona fisica.
In conclusione, nel caso in cui l’Amministrazione finanziaria faccia uso di presunzioni semplici a fondamento del proprio avviso di accertamento, deve necessariamente adattare la legge causale al caso specifico, motivando nel modo più convincente le ragioni per le quali, data l’evasione della società, si può immaginare che vi sia stato incasso di utili da parte dei soci – le applicazioni automatiche sono assolutamente illegittime e senza alcun fondamento.
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