Calcolo IVA in aggiunta a seguito di accertamento fiscale: Sentenza n. 6951 del 17/03/2017 della Suprema Corte di Cassazione – Sez. 5° civile – Presidente Bruschetta – Relatore Perrino ed altre considerazioni in merito:
L’Agenzia delle Entrate al fine di calcolare la maggiore imponibile ai fini dell’IRPEF, IRES, IVA o altre imposte, a seguito di un accertamento fiscale, non scorpora mai l’IVA dalle somme accertate quali ricavi non dichiarati, ma calcola quest’ultima in aggiunta.
Per meglio comprendere, se vengono accertati € 1.000,00, quali incassi non dichiarati, l’Amministrazione finanziaria per calcolare la maggiore imposta ai fini dell’IVA non effettuerà mai uno scorporo (accerterà € 220,00 quale maggiore imposta per IVA e non € 180,33) e conseguentemente la base imponibile ai fini dell’IRPEF, IRES ed IRAP sarà indicata in € 1.000,00 e non € 819,67.
Se la somma effettivamente incassata (e non dichiarata) ammonta indubbiamente ad € 1.000,00 può risultare legittimo e giusto non includere anche l’IVA (o/e i relativi crediti previdenziali) nella detta somma, ma calcolarla in aggiunta? Detto operato non risulta lesivo del principio della capacità contributiva (prevista dall’art. 53 della Costituzione secondo cui: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”)?
Con l’espressione capacità contributiva si indica, infatti, proprio sul piano quantitativo, quale parte della ricchezza può assumere rilevanza ai fini del prelievo fiscale. Se le situazioni economiche, però, sono ricostruite in maniera fittizia, su fatti-indice inesistenti, costruiti a tavolino (e non sulle prove certe), il prelievo fiscale avverrebbe in basa ad una forza economica del contribuente lontana dalla realtà. La forza economica del contribuente deve, invece, necessariamente essere concreta, effettiva, non già meramente ipotizzata, immaginata, presupposta o, quel che è peggio, soltanto auspicata dall’Amministrazione finanziaria.
Ciò non significa ovviamente che la legge tributaria e l’operato dell’Amministrazione finanziaria non possa far leva su presunzioni. Queste presunzioni non devono, però, essere totalmente avulse dalla realtà o addirittura campate per aria, perché, in tal caso, c’è il rischio di far cadere l’imposta su ricchezze fittizie, non esistenti nella disponibilità del contribuente assoggettato al tributo.
Ovviamente, in caso di presunzioni, il contribuente è ammesso a prova contraria, ma quando la presunzione è costruita in modo tale da non permettere la dimostrazione (cioè la prova contraria) rischiamo di nuovo di mandare a tassazione ricchezze inesistenti (ricchezze che realmente non fanno parte del patrimonio giuridico del contribuente) e che il soggetto risulti inidoneo alla sopportazione di quell’onere.
Sulla base delle suddette considerazioni sembra evidente che, calcolare l’IVA in aggiunta all’importo accertato e non scorporarla dallo stesso, risulta ledere la capacità contributiva del contribuente, il quale potrebbe non essere in grado di sopportare il relativo pagamento.
Secondo l’Amministrazione finanziaria, calcolare l’IVA in aggiunta alla somma accertata risulta, invece, legittima perché, la normativa italiana attribuisce il diritto di rivalsa al soggetto passivo non solo in via ordinaria, ai sensi dell’art. 18, D.P.R. n. 633/1972, ma anche in seguito ad accertamento, ai sensi del successivo art. 60, nei confronti del cessionario o del committente. In particolare, dopo la modifica introdotta con il D.L. 1/2012, l’art. 60, 7° comma, del D.P.R. n. 633/1972, consente l’esercizio del diritto di rivalsa della maggiore imposta accertata, ponendo, però, quale condizione che il soggetto passivo abbia definitivamente corrisposto le somme dovute all’Erario in dipendenza dell’importo controverso.
Ma perché mai dovrebbe il contribuente pagare una somma mai incassata (in contrasto con il principio della capacità contributiva) e poi tentare di recuperarla dai propri clienti?
E cosa succede se il cliente non è identificato o non è più identificabile e, quindi, il soggetto passivo (fornitore) non ha la possibilità di esercitare il diritto di rivalsa oppure quando il cliente si rifiuta di procede con il pagamento? L’ammontare versato all’Erario rimane, comunque, a carico del fornitore?
In questo caso, secondo l’AIDC (Associazione Italiana di Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili) – ND n. 195, il fornitore può procedere a rettifica in diminuzione oppure detto importo potrà essere dedotto ai fini delle imposte sul reddito, secondo le regole ordinarie, come perdita su crediti vantati nei confronti del proprio cliente.
La situazione risulta comunque ambigua e la soluzione data dai commercialisti potrebbe non essere del tutto soddisfacente, proviamo, pertanto, cercare risposte nella giurisprudenza. La giurisprudenza se n’è occupata molto poco dell’argomento. In ogni caso, secondo una recente sentenza della Suprema Corte (Cassazione n. 6951 del 17.3.2017 – 5° civile) possiamo osservare quanto qui di seguito.
L’Agenzia delle Entrate, a seguito di un controllo fiscale, accertava a carico del contribuente, in relazione all’anno 2003, maggiore imponibile ai fini dell’IRPEF, dell’IVA e dell’IRAP. Il contribuente impugnava l’avviso di accertamento, ma senza successo né in primo, né in secondo grado. Per tale motivo proponeva ricorso in Cassazione. La Suprema Corte dichiarava infondato il motivo di ricorso, con il quale il contribuente contestava la decisione del giudice d’appello con la quale escludeva la possibilità dello scorporo dell’IVA.
Secondo la Corte l’accertamento riguardava un volume d’affari ricostruito con il metodo analitico -induttivo, a seguito dall’inattendibilità della documentazione contabile, ivi comprese le fatture. Tale fatto conferma la correttezza della statuizione impugnata, giacché il contribuente non ha dedotto, né tampoco provato che l’importo dell’imposta sia stato incorporato nel prezzo delle operazioni specifiche a valle, ossia nel prezzo dei beni o dei servizi forniti dal soggetto passivo nell’ambito delle sue attività economiche (come chiarito, tra varie, da Corte giust. 29 ottobre 2009, causa C-29/08, SKF, punto 60 e da Corte giust. 16 febbraio 2012, causa C-118/11, Eon Aset Menidjmunt o.o.d, punto 48) (ndr. le citate sentenze, però, centrano poco con quanto detto).
Secondo la Cassazione, quindi, “la caratteristica di neutralità dell’IVA esclude la fondatezza della censura: il regime dell’IVA è difatti volto a sollevare interamente l’imprenditore dall’onere dell’imposta dovuta o versata nell’ambito di tutte le sue attività economiche, al fine di garantire la perfetta neutralità dell’imposizione fiscale per tutte le attività economiche, indipendentemente dallo scopo o dai risultati di dette attività, purché queste siano, in linea di principio, di per sé soggette all’IVA. Qualora l’IVA non sia stata applicata, o non vi è prova che lo sia stata, dunque, essa non può essere scorporata”.
La Cassazione afferma che sussisterebbe una presunzione in relazione al calcolo in aggiunta dell’IVA, dato dal fatto che il volume d’affari veniva ricostruito con il metodo analitico – induttivo, per tale ragione il contribuente avrebbe dovuto fornire prova che l’IVA non è stata applicata in aggiunta all’importo accertato.
Dopo una breve analisi della situazione, ad avviso della scrivente, il calcolo dell’IVA in aggiunta all’importo accertato lede, comunque ed in ogni caso, il principio della capacità contributiva – a meno che l’Amministrazione finanziaria (e non il contribuente) non fornisca prova che l’IVA doveva essere effettivamente calcolata in aggiunta (perché non esiste alcuna presunzione legale).
Di sicuro il suddetto principio non viene salvato con la possibilità di rivalsa data al contribuente accertato nei confronti dei propri clienti, sopratutto perché tale rivalsa sarebbe possibile solamente in caso di integrale pagamento di quanto accertato. In più, la possibilità di rivalsa svanisce anche nel caso in cui il cliente non è identificato o identificabile, nonché quando il cliente non intente versare l’IVA in aggiunta all’importo già versato. Per tutti le suddette ragioni, l’applicazione dell’IVA in aggiunta, costituisce un valido motivo di impugnazione dell’avviso di accertamento.
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