Sent. n. 12964 del 24 maggio 2013 – Corte Cass., Sez. V – Pres. Cirillo, Rel. Conti
In caso di operazioni intracomunitarie, per poter beneficiare della non imponibilità, le cessioni devono possedere le caratteristiche indicate dal D.L. n. 331 del 1993, art. 41, fra queste il requisito dell’effettiva movimentazione del bene, con partenza dall’Italia ed arrivo in uno Stato membro.
In assenza dei presupposti indicati dall’art. 41 cit., la cessione viene assoggettata all’imposta nel territorio dello Stato.
L’onere di provare l’esistenza dello scambio intracomunitario (cioè l’effettivo trasferimento del bene nel territorio di altro Stato membro) grava sul contribuente cedente, che emette la fattura e non applica l’imposta nei confronti del cessionario (D.L. n. 331 del 1993, art. 50, comma 1), dichiarando che l’operazione non è imponibile (D.L. n. 331 del 1993, art. 46, comma 2), in ragione del principio generale di cui all’art. 2697 c.c., secondo il quale l’onere di provare la sussistenza dei presupposti di fatto che legittimano la deroga al normale regime impositivo è a carico di chi invoca la deroga.
IL FATTO
La Guardia di finanza contestava a una società la fatturazione di merci destinate all’esportazione in favore di una società tedesca, ma in realtà movimentate solamente in Italia.
Veniva quindi emesso nei confronti della società contribuente, che si era avvalsa del regime di non imponibilità delle operazioni intracomunitarie, un avviso di accertamento per il recupero dell’Iva, con ulteriore irrogazione di sanzioni.
I giudici di merito, sia in primo che in secondo grado, accoglievano i ricorsi della società contribuente che, alla stregua della giurisprudenza della Corte di Giustizia, non sarebbe stata tenuta a verificare l’avvenuto trasferimento della merce fatturata in un altro Paese comunitario, ma soltanto a rispettare le prescrizioni normative concernenti gli adempimenti formali.
L’Agenzia delle Entrate proponeva ricorso per cassazione lamentando la violazione e la falsa applicazione dell’articolo 41, comma 1, lettera a), del decreto legge 331/1993 e dell’art. 28-quater, punto a), lett. a), della Direttiva 77/388/CEE, in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, del c.p.c..
L’Amministrazione finanziaria lamentava, in particolare, che la Commissione Tributaria Regionale, nel respingere l’appello aveva erroneamente ritenuto che non incombesse sul cedente altro onere se non quello di essere in regola con le disposizioni in materia di registrazione delle fatture e delle operazioni intracomunitarie, tralasciando di considerare, per converso, che era proprio il cedente a dover provare l’effettivo trasferimento della merce in un Paese comunitario.
La Corte di cassazione, con la sentenza n. 12964 del 24 maggio accoglieva il ricorso dell’Agenzia delle Entrate, cassando la sentenza impugnata.
DIRITTO
Nel caso di specie, dunque, la società cedente avrebbe dovuto fornire prova dell’avvenuto trasferimento della merce in altro Paese dell’Unione Europea, trattandosi di un elemento strutturale della fattispecie normativa, la cui mancanza impedisce il riconoscimento dello stesso carattere “intracomunitario” dell’operazione (cfr Cassazione, sent. n. 13457/2012) e fa venir meno il beneficio della non imponibilità.
Infatti, la Corte di Cassazione (cfr Cassazione, sent. n. 1670/2013), evocando le più recenti risoluzioni emanate dall’Agenzia delle Entrate (la n. 345/E del 2007 e la n. 477/E del 2008), pur avendo escluso che il cedente sia tenuto a svolgere attività investigative sulla movimentazione subita dai beni ceduti dopo che gli stessi siano stati consegnati al vettore incaricato dal cessionario, ha affermato che lo stesso ha il dovere “di impiegare la normale diligenza richiesta a un soggetto che pone in essere una transazione commerciale e, quindi, di verificare con la diligenza dell’operatore commerciale professionale le caratteristiche di affidabilità della controparte – Cassazione 13457/2012 – dovendo questi procurarsi mezzi di prova adeguati alle necessità, capaci se non di dimostrare, quanto meno di non lasciare dubbi circa l’effettività dell’esportazione e circa la sua buona fede in ordine a tale dato.
In definitiva, non incombe sul cedente l’onere di escludere la prova della propria malafede, ma semmai di provare con ogni mezzo l’effettività dell’esportazione e, qualora sia invece provato e ammesso che tale esportazione non vi è stata, di dimostrare che il cedente è stato tratto in inganno nonostante avesse adottato le opportune cautele per evitare tale aggiramento.
Orbene, nel caso di specie, i giudici di primo e secondo grado non hanno applicato correttamente i principi appena espressi, motivo per cui i Giudici di piazza Cavour hanno rinviato la causa ad altra Sezione della Commissione Tributaria Regionale.
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